Quattro cose da sapere sulla cannabis autofiorente

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La cannabis è una pianta che fa parte da millenni della quotidianità dell’uomo. Negli ultimi anni, in diversi Paesi d’Europa tra cui l’Italia, è aumentato notevolmente il numero di persone che hanno deciso di iniziare a coltivarla in ambito casalingo. Molte di loro, principianti, si sono orientate verso la cannabis autofiorente. I semi a carattere autofiorente, venduti da diversi e-commerce di successo tra cui Fast Buds, non sono certo una novità per il mercato. Solo da pochi anni, però, la loro fama è letteralmente esplosa. Scopriamo, nelle prossime righe, qualche curiosità su di loro.

Una varietà molto forte

I semi di cannabis autofiorente, come dice il nome stesso, sono in grado di fiorire a prescindere dalla quantità di luce che ricevono (attenzione, questo non vuol dire che l’aspetto dell’illuminazione possa essere messo totalmente in secondo piano). Il motivo di questa loro caratteristica è legato al loro essere ibridi contenenti una varietà di cannabis molto forte. No, non stiamo parlando d’intensità dovuta alla presenza di cannabinoidi, ma di forza intesa come capacità di resistere a climi ostili. La cannabis ruderalis, la base del successo delle autofiorenti, è infatti una varietà di origine siberiana. Questa tipologia di cannabis, capace di crescere e prosperare in una delle zone climaticamente più ostili del pianeta, dà piante di dimensioni ridotte che, come già accennato, fioriscono in tempi rapidi. La necessità, infatti, è quella di minimizzare la durata del ciclo di vita per far fronte al meglio al buio e al freddo. Inoltre, la cannabis ruderalis è in grado perfettamente di crescere in terreni sconnessi e accidentati.

La cannabis autofiorente è arrivata sul mercato all’inizio del terzo millennio

Dopo diversi esperimenti partiti negli anni ‘70 – con protagonista la cannabis ruderalis e altre varietà provenienti da parti del mondo ben lontane dalla Siberia, come per esempio il Messico – la cannabis autofiorente ha fatto il suo debutto nel mercato all’inizio del terzo millennio. Tutto è partito con la Lowryder, “creatura” del breeder Joint Doctor, ancora oggi considerato una leggenda tra gli appassionati di cannabis. Pianta di dimensioni affini a quelle di un bonsai – il nome, in questo caso, tradisce le caratteristiche – era formata da tre ceppi di altrettante varietà diverse: la Northern Lights 2, la Mexican Rudy, varietà di cannabis tra le più apprezzate al mondo, la William’s Wonder.

Della Lowryder, inizialmente criticata da molti breeder che parlarono di una sua scarsa potenza, arrivarono successivamente diverse versioni.

La cannabis autofiorente non va rinvasata

Nel momento in cui si decide di iniziare a coltivare cannabis autofiorente, non bisogna spendere tanto tempo – e per fortuna neppure tanti soldi – nella scelta dei vasi. Orientarsi verso uno scuro dalla capacità compresa tra i 7 e i 14/15 litri va benissimo. La cannabis autofiorente, infatti, non va rinvasata. Le piantine, per via del già citato aspetto del ciclo di vita breve, considerano il cambio di vaso come un vero e proprio trauma.

Non è vero che le rese sono inferiori

Diversi coltivatori alle prime armi, nell’informarsi in merito alla cannabis autofiorente, si sono sentiti dire che, optando per questa strada, avrebbero avuto a che fare con rese inferiori. Il motivo? Il fatto che le piante sono di dimensioni più contenute rispetto a quelle che si ottengono dai semi fotoperiodici, ossia quelli vincolati ai cicli di luce per la crescita. Non è così vero. Certo, lo standard per le autofiorenti sono piante non altissime, ma dagli anni della Lowryder e delle sue dimensioni bonsai le tecniche di coltivazione ne hanno percorsa di strada e, oggi come oggi, è possibile, partendo da semi autofiorenti, ottenere piante della medesima altezza di quelle fotoperiodiche (con tutti i vantaggi del caso per quanto riguarda la quantità di cime).

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