Swing, storia di uno stile del jazz

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Storia dello swing nel jazz: le origini, le caratteristiche, le grandi orchestre e i suoi principali interpreti

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Le origini dello Swing

Prima dello swing, i precedenti stili di jazz venivano raggruppati sotto il nome di “Two beat jazz”. La parola beat significa battito, baricentro ritmico. La battuta del Two beat jazz consiste dunque di due battiti, di due baricentri ritmici. Verso la fine degli anni venti, gli stili two beat della musica jazz sembravano esauriti. A Harlem e soprattutto a Kansas City verso il 1928 – 29 si stava già delineando un nuovo modo di suonare. Laddove questo modo di suonare confluì con la musica dei rappresentanti dello stile di Chicago e di New Orleans, i quali in quel periodo cominciarono la seconda grande migrazione della storia del jazz, – la migrazione da Chicago a New York – nacque lo Seing. Contrariamente al Two beat jazz lo si può definire “Four Beat Jazz”, perché qui il tempo in quattro viene scandito uniformemente dall’inizio alla fine. In linea di massimo questo è corretto, ma anche in questo caso – come accade quasi sempre nel jazz – ci sono sconcertanti eccezioni. Per esempio Louis Armstrong – o anche i musicisti dello stile di Chicago – conoscevano già ai tempi del Two Beat Jazz i ritmi regolari a quattro tempi. Jimmie Lunceford d’altro canto suonò con la sua big band durante il periodo di maggior voga dello stile Swing a quattro tempi, una musica dal ritmo ambiguo: sia a due tempi che a quattro tempi.

Swing, caratteristiche

La parola swing è la parola chiave della musica jazz. Essa viene impiegata in due accezioni diverse, cosa che costituisce di nuovo una possibilità di creare malintesi. In primo luogo sta a indicare un elemento ritmico che conferisce al jazz quella tensione che alla grande musica europea viene conferita dalla forma. Questo elemento è dunque presente in tutti gli stili, in tutte le fasi e in tutti i modi di suonare del jazz ed è tanto indispensabile al jazz che si è arrivati ad affermare: senza swing il jazz non esiste.
In secondo luogo la parola swing sta ad indicare lo stile jazzistico degli anni trenta – cioè quello stile con cui il jazz ha raggiunto i massimi successi commerciali: Benny Goodman fu definito “King of Swing”.

Per evitare confusioni scriveremo l’elemento swing che deve avere ogni tipo di jazz con l’iniziale maiuscola. Esiste una sostanziale differenza fra un brano di jazz che ha swing e uno che è swinf. E’ vero che ogni brano di jazz che è swing ha, se si tratta di un pezzo buono, anche lo swing minuscolo, ma ogni pezzo di jazz che ha swing non necessariamente deve essere uno swing.

Le big band e le orchestre

Caratteristica dello stile dello Swing degli anni trenta fu la costituzione di grandi orchestre, di, di big bands. A Kansas City si sviluppò – per esempio nelle orchestre di Benny Moten e in seguito in quella di Count Basie – uno stile di riff in cui il vecchio schema di Call and response, tanto importante per tutto lo sviluppo della musica jazz, – la forma domanda-risposta che deriva dalla musica africana – venne applicato alle sezioni strumentali delle grandi orchestre di jazz: alle sezioni delle trombe, dei tromboni e dei sassofoni.
Un altro elemento nella formazione delle forme jazzistiche per grandi orchestre venne introdotto dai musicisti che erano usciti dallo stile bianco di Chicago: un rapporto più europe con la musica. Nell’orchestra di Benny Goodman confluirono le diverse correnti: la tradizione di New Orleans di Fletcher Henderson che si occupava degli arrangiamenti per Goodman, la tecnica riff di Kansas City e la precisione e la preparazione dei bianchi che da un lato tolsero a questo tipo di jazz molto della sua espressività ma che d’altro canto gli conferirono una forma cantabile, analoga al modo pulito di intonazione della musica europea, di modo che questo jazz potè essere venduto a un pubblico di massa.
Il fatto che negli anni trenta accanto alla formazione di big bands anche il singolo solistra acquistasse sempre importanza è una contraddizione solo apparente.
Il jazz è sempre stato contemporaneamente la musica di un collettivo e anche quella di un solo individuo.
Il fatto che esso – più di qualsiasi altro tipo di musica – possa essere contemporaneamente entrambe le cose è molto significativo. In esso è contenuto il fenomeno sociologico del jazz che riflette la situazione sociale dell’uomo moderno.

I grandi solisti

Gli anni trenta divennero perciò anche gli anni d’oro dei grandi solisti: i sassofonisti tenori Coleman Hawkins e Chi Berry, il clarinettista Benny Goodman, i batteristi Gene Krupa, Cozy Cole e Sid Catlett, i pianisti Teddy Wilson e Fats Weller, i sassofonisti contralto Johnny Hodges e Benny Carter, i trombettisti Bunny Berigan, Rex Stewart e Roy Eldridge.
Spesso le due tendenza, quella della grande orchestra e quella solistica, si fondevano: il clarinetto di Benny Goodman spiccava in modo ancora più brillante sullo sfondo della sua big band; la tromba di Louis Armostrong acquistava dimensioni ancora più plastiche quando veniva accompagnata dalla grande orchestra di Luis Russell o dall’orchestra che Louis stesso aveva creato per le sue incisioni: e la voce pastosa dei sassofoni tenori di Coleman Hawkins e Chu Berry era spesso più affascinante se si staccava dal suono duro della bandi di Fletcher Henderson, creando un suggestivo contrasto.

fonte: Il libro del jazz, Joachim Ernst Berendt

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