Rito e sacrificio in Grecia
Da Redazione
Aprile 20, 2014
Gli aspetti del rito e sacrificio in Grecia
La partecipazione al banchetto sacro, che seguiva l’uccisione della vittima sacrificale e la spartizione delle carni tra i commensali-offerenti, lasciando consumarsi sul fuoco quelle parti destinate al dio, equivaleva a condividere con la divinità la medesima mensa.
Partire da questa laconica premessa è necessario per tentare di comprendere la variegata sfera del sacrificio presso i Greci: un mondo assai dinamico, cui si intrecciano indissolubilmente aspetti etici, sociali e culturali, nonché politici ed economici.
La necessità intimamente connessa alla religione greca di stabilire con gli dei un rapporto diretto ogniqualvolta le circostanze ponessero le comunità di fronte a delle scelte critiche – la dichiarazione di una guerra, la stipulazione di un trattato, la nomina di un magistrato – facevano del tempio la sede del pieno controllo territoriale, ed in particolar modo presso quelle società che avevano nel sacrificio il perno delle loro pratiche alimentari e del loro pensiero politico-religioso, per dirla usando le parole di Detienne.
Ma d’altra parte non va trascurato che l’uccisione e la consumazione di cibi carnei, ed in modo particolare delle specie domestiche, era un atto violento che poteva avvenire solo tramite il consenso della divinità. Dunque appare chiaro che i primi luoghi di tali riunioni fossero gli edifici di culto, e che l’occasione difficilmente potesse presentarsi all’infuori dei pasti sacrificali, banchetti a cui gli dei erano chiamati a partecipare, e che mettevano gli uomini nella condizione di pretendere favori dalle stesse divinità in cambio del cibo offerto. E lo stesso cibo deposto sugli altari sanciva l’immortalità degli dei, dal momento che alla divinità greca erano sufficienti i fumi emanati dalla combustione degli ossi e del grasso degli animali, al contrario dei mortali i quali non potevano fare a meno di cibarsi della carne della vittima.
Visto da un’ottica prettamente sociale invece la partecipazione al sacrificio ed al banchetto con la condivisione di una porzione della vittima era un momento fondamentale per l’ uomo greco, poiché tramite queste azioni, suggellate infine da una suddivisione egualitaria della carne ottenuta, poteva affermare il proprio status di cittadino. Poteva anche però verificarsi il contrario: infatti la spartizione delle porzioni non solo presupponeva un prima e un dopo nell’ordine in cui i commensali ricevevano la parte assegnata, elemento già di per sé discriminante, ma comportava inoltre una scelta tra porzioni migliori e non, la cui assegnazione era alla base di una differenza di status tra i commensali. Esso dunque poteva unire ponendo orizzontalmente, tramite una suddivisione democratica, sullo stesso piano tutti i cittadini, oppure disunire creando una simbolica scala gerarchica nell’ordine e nei benefici della spartizione.
Rito e sacrificio in Grecia: il contributo dell’indagine archeozoologica
L’analisi archeozoologica dei reperti provenienti dalle fosse di scarico dei luoghi di culto ci offre un ampio spettro conoscitivo, grazie al quale approcciare in dettaglio, il complesso meccanismo dell’uccisione e del sacrificio, che in Grecia assume aspetti distinti non solo tra santuari distanti tra loro e dedicati a differenti divinità, ma anche all’interno dello stesso luogo sacro, arricchendo di significati specifici la moltitudine dei caratteri che compongono un singolo culto.
L’importante esame dei reperti ossei permette innanzitutto di riconoscere differenze sostanziali tra le fosse di scarico contenenti resti destinati agli dei, che si presentano di solito altamente carbonizzati e calcinati – i reperti ossei hanno uno spettro di colori che varia dal marrone-nero fino ad arrivare al grigio-bianco quando sono stati esposti ad elevate temperature – rispetto a quelli provenienti dagli scarichi dove sono raccolti i resti dei pasti, che mostrano invece tagli per strappare la carne e alle volte anche frantumazioni per il recupero del midollo. Le porzioni destinate agli dei potevano invece essere poste sugli altari ancora con la carne attaccata oppure completamente ripulite, a seconda delle intenzioni e del sentimento del devoto.
L’analisi archeozoologica consente ancora di individuare le specie più diffuse tra le vittime sacrificali, confermando in tal modo le nostre conoscenze basate sulle pitture vascolari ed i documenti scritti. E spingendosi oltre, nell’individuare la presenza e la frequenza di determinate specie animali, ci offre informazioni importanti sulla dieta di coloro che frequentavano i santuari, sulle modalità di uccisione e macellazione delle vittime e la cottura delle loro parti.
Ma per quanto riguarda le abitudini culinarie il discorso si fa molto più complesso, poiché l’evidenza osteologica derivante dalle fosse di scarico, ci mostra una realtà ben più articolata, con l’inclusione insieme alle tipiche specie domestiche, quali siamo abituati dalle raffigurazioni, ovvero di ovini caprini e suini, di resti appartenenti ad un ampio spettro di specie animali piuttosto insolite come cani, orsi, cervi, scimmie, gatti, tartarughe, leoni e persino coccodrilli. Stando anzi alle stime proposte recentemente da Gunnel Ekroth i resti di ovini caprini e suini raggiungono appena il 10% dei materiali osteologici complessivi ritrovati all’interno delle aree cultuali.
E’ difficile ovviamente pensare che tutti questi animali, dopo essere stati immolati presso gli altari, fossero destinati ad essere spartiti – più o meno equamente – durante i banchetti comuni, eppure le tracce di macellazione e scuoiamento studiate su alcuni reperti osteologici di cani rivenuti nel santuari di Apollo Dafneforo ad Eretria sono del tutto simili a quelle individuate sui reperti appartenenti a pecore, capre e maiali delle stesse fosse, confermando in tal modo che il cane era tra le componenti abituali dei sacrifici presso gli altari ma anche presso banchetti di quel culto. Stessa cosa può dirsi sulla base delle evidenze osservate sull’anomala presenza dei resti di un cranio di scimmia rinvenuti nel santuario di Poseidone e Anfitrite a Tenos.
Studi condotti su alcuni reperti ossei di animali bruciati, rinvenuti nel palazzo di Pilo, hanno confermato l’esistenza di pratiche sacrificali nella Grecia continentale in una fase piuttosto alta, quella micenea appunto, per la quale non avevamo alcun riferimento letterario o iconografico. E ancora le indagini condotte sui materiali archeozoologici provenienti dalle tre stanze del complesso sacro individuate nel sito di Ayios Kostantinos, nel Peloponneso, hanno fornito dati discordanti ed interessanti al contempo.
Mentre dalla stanza A dell’edificio sacro proviene un maggior numero di ossa riferibili a esemplari di giovani suini, con evidenti segni di screpolature, deformazioni e contrazioni per via dell’esposizione a temperature piuttosto elevate, dalle stanze B e C provengono, oltre a suini, principalmente materiali ossei associati a capre, di cui tra i depositi di cenere è stato possibile riconoscere anche mandibole, falangi e denti, ovvero le parti non commestibili dell’animale. Inoltre le tracce di scuoiamento presenti sulla tibia di un maiale dalla stanza A indicano che la carne veniva preventivamente asportata, invece la maggior parte dei reperti delle stanze B e C non reca i segni dell’esposizione al fuoco, informandoci in tal modo che le tre stanze erano deputate a riti con caratteristiche (e finalità possiamo aggiungere) del tutto differenti.
I resti di coccodrillo all’Heraion di Samos, non vanno di certo intesi come resti di pasto, ma piuttosto come doni votivi, parimenti può dirsi per il dente di orso dall’Artemision di Efeso, il cui foro lo classifica indubbiamente quale pendente di collana.
Diversamente, il ritrovamento di una scapola di leone, recante evidenti segni di combustione insieme a tracce di macellazione, nel santuario di Apollo e Artemis a Kalapodi, ha indotto a considerarlo quale resto di pasto.
La maggior parte dei reperti provenienti dalle tre fosse di scarico localizzate nell’Artemision di Efeso afferiscono a specie di piccole dimensioni – ruminanti come le capre erano preferite tra tutte – con una maggiore predilezione per gli individui al di sotto dei tre anni, ma all’interno dello stesso contesto la forte concentrazione di bovini rilevata in una sola delle tre fosse potrebbe essere indizio di sostanziali differenze all’interno della stessa area cultuale12.
Inoltre uno studio condotto sui materiali archeozoologici nel santuario di Zeus a Nemea ha permesso di operare una distinzione tra i sacrifici offerti a Zeus e quelli destinati all’eroe locale Ofelte, in quanto al dio venivano consacrati solitamente gli arti destri degli animali, mentre all’eroe gli arti sinistri, i quali in questo caso non recano tracce di combustione. Un significato purtroppo ancora oscuro, ma che ci dà testimonianza dell’ampia gamma comportamentale che scandiva i termini e i significati di questo sacrificio.
E ancora i dati dal deposito del tempio di Atena Urania ad Atene mostrano che circa il 95% dei resti erano bruciati e calcinati. L’identificazione dei resti ha mostrato una forte prevalenza di piccoli ruminanti, con una schiacciante preferenza per il bacino e le vertebre caudali.
Nel santuario di Apollo Aleo in Argolide, l’indiscussa predominanza di resti appartenenti a caprovini ne evidenzia una maggiore predilezione su tutte le altre specie, con la quasi esclusiva presenza delle parti posteriori, dei quali si è conservato soltanto il lato destro, suggerendo l’ipotesi di interpretare i resti deposti come “skelos” , ovvero la porzione riservata al sacerdote.
Un’altra procedura si è evinta dallo studio dei resti riferiti alla festa della cosiddetta “Primavera sacra di Corinto”, nel cui ambito le vittime (prevalentemente mucche, maiali ma anche piccoli ruminati), venivano tagliate in piccole parti e cotte, ad eccezione del cranio, sull’altare occidentale dell’area sacra.
Dunque cosa stabiliva se una vittima poteva essere destinata in parte agli dei e parte alla mensa degli offerenti? La semplice volontà degli stessi, che poteva variare di gruppo in gruppo, il quale così facendo intendeva stabilire un rapporto più stretto con il dio, oppure la stessa peculiarità del culto? O ancora il tipo di richiesta e di benevolenza che si intendeva ottenere dagli dei tramite un particolare sacrificio?
Da tutti gli esempi riportati si evince che l’olocausto, inteso come rituale in cui si praticava la combustione completa dell’animale sacrificale sull’altare, era una pratica poco o nulla diffusa in Grecia. Ciò che maggiormente interessava agli dei, secondo il pensiero geco, era piuttosto la dedica di determinate porzioni di cibo, cui seguiva il banchetto, pratica che in letteratura è stata tramandata con nome di thisia. E la porzione delle vittime che più comunemente veniva dedicata agli dei consisteva nei femori completamente ripuliti della carne e avvolti nel grasso, nell’“osphys” (che sulla scia dei confronti operati su numerose raffigurazione vascolari è stato interpretato come il bacino) e in più nelle vertebre della coda.
Sulla base di un passo fornitoci da Aristofane (Pace, 1053-1054), sappiamo che, se il calore della fiamma faceva arricciare la coda verso l’alto, il segno veniva interpretato come dimostrazione della benevolenza ottenuta da parte della divinità e dunque del buon esito del sacrificio.
In altre occasioni, molto meno frequenti comunque dei thisiai, veniva praticato il moirocausto, che consisteva nella distruzione, tramite il fuoco, di una parte più ampia della vittima, come un intero arto per esempio, operazione che comportava un’offerta maggiore agli dei e di conseguenza una condivisione di cibo più ristretta tra i partecipanti.
Rito e sacrificio in Grecia: nuovi modelli interpretativi
Dal momento che l’olocausto ed il moirocausto erano pratiche piuttosto inusuali presso gli altari dei luoghi di culto sono state spese molte parole per tentarne una contestualizzazione all’interno dei riti e delle pratiche religiose. La più diffusa vuole che questi vadano intesi come sacrifici destinati esclusivamente a divinità ctonie, dal momento che esse non potevano restare soddisfatte delle esalazioni emanate dall’arrostimento del grasso e delle ossa, le quali salendo verso il cielo diventano un compiacimento esclusivo delle divinità olimpiche.
Ma negli ultimi anni questo modello interpretativo ha subito numerose critiche, non solo per l’avversione della letteratura scientifica moderna verso modelli statici che tendono a polarizzare aspetti di una questione incasellandoli in rigide schematizzazioni, ma anche perché, sulla scia delle evidenze emerse negli ultimi anni dalle indagini archeozoologiche, tale teoria appare ormai fin troppo limitata per abbracciare le numerose varianti ed i molteplici aspetti tramite i quali si presenta il rito del sacrificio presso i diversi centri sacri greci.
Una comprensione più approfondita del fenomeno può essere ottenuta basandoci piuttosto sulla distinzione tra quelli che sono stati definiti “rituali a bassa intensità” e “rituali ad alta intensità”, riferendoci con i primi ai sacrifici effettuati per mantenere l’ordine e lo stato di pace raggiunto da una comunità, con i secondi invece a situazioni di gravi calamità e disastri, ritenuti essere la conseguenza di una frattura creatasi nel rapporto tra la comunità e gli dei.
Nei rituali a bassa intensità andrebbero riconosciuti tutti quei sacrifici che prevedono la dedica di una porzione soltanto, thisiai appunto con seguente banchetto, e che con molta probabilità andavano eseguiti con una cadenza giornaliera; i rituali ad alta intensità erano eseguiti invece durante i periodi di guerra, o in seguito anche a disastri naturali e si compivano attraverso la dedica totale o di una parte considerevole della vittima.
Ma in realtà ci si rende conto che anche questo schema, se applicato all’universo religioso greco, non riesce a risolverne maniera esaustiva le divergenze, le quali anzi pure in tal caso si presentano e sono parecchio discordanti: basti citare fra tutti l’eccezionale caso riportato da Pausania (VIII, 18, 11-13) avvenuto nel santuario di Artemis Laphria a Patrai, dove le vittime sono state tutte bruciate vive, quale dedica a Boubrostis, personificazione dell’appetito oltre misura. Si capisce bene dunque che sono pur sempre le varie esigenze rituali ad offrire i mezzi e le modalità del sacrificio da effettuare, nonché il carattere del destinatario del sacrificio in questione.
Solo uno studio comparato tra dati archeozoologici, archeologici e letterari può consentirci di comprendere appieno le diverse modalità di sacrificio, che non possono essere astratte ed universalmente valide sia cronologicamente che geograficamente. Ancora è utile per far luce citare il caso dei sacrifici offerti ad Eracle, che comprendono olocausti e moirocausti, così come pure semplici thiasiai. Contestualizzare il dato dunque collocandolo in un preciso arco temporale e spaziale è un’operazione imprescindibile, se si desidera far luce sia sulla dieta dell’uomo greco e se si desidera approfondire tramite essa il suo rapporto con l’idea e la percezione del sacro.
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